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martedì 16 giugno 2020

Meno allevamenti intensivi, meno epidemie


Meno allevamenti intensivi, meno epidemie. Le storie dei virus emergenti raccontano una verità semplice che preferiamo ancora ignorare.


Non è facile contarli, ma secondo le stime pianeta verrebbero allevati 70 miliardi di animali, 9 ogni persona, ogni anno (moltissimi di più se si contano anche i polli, i pulcini maschi e i pesci). Gran parte di questa popolazione è cresciuta in allevamenti intensivi.

Nel 2017 la produzione di pollame rappresentava ben oltre il 37% della produzione mondiale di carne complessiva: miliardi di animali, spesso allevati in modo intensivo (secondo un’indagine di Essere Animali, in Italia il pollame è allevato in modo intensivo nel 99,8% dei casi)

Questa enorme massa di volatili è soggetta a ripetute epidemie, causate da virus influenzali di tipo A, fra cui H5N1, H7N9 e H9N2, che, come tutti i virus influenzali, sono in grado di mutare con gran facilità e combinarsi con altre varianti ospitate in maiali e cavalli. I virus influenzali aviari abitano diverse specie di uccelli selvatici (sterne, oche, quaglie, anatre…) e possono effettuare un salto di specie quando entrano in contatto con volatili da allevamento. Nel 2015, per esempio, un virus del sottotipo H5N2 ha scatenato un’epidemia negli allevamenti avicoli degli Stati Uniti. 
Per contenere il contagio e limitare al massimo la possibilità che il virus riuscisse a diffondersi anche fra gli esseri umani, sono stati abbattuti più di 43 milioni di volatili in 15 stati. 

Come ha sottolineato la FAO in un rapporto del 2013: “La salute degli animali da allevamento è l’anello debole del sistema sanitario globale”. David Quammen, nel suo Spillover (Adelphi, 2014), lo ribadisce in modo chiaro:
Qui non si tratta più di zibetti selvatici, ma di allevamenti su scala industriale. È quasi impossibile fare lo screening a tutti i maiali, manzi, polli, anatre, pecore e capre per verificare la presenza di un nuovo virus prima di averlo identificato, e gli sforzi in questo senso sono solo agli inizi. Le pandemie di domani potrebbero essere oggi nulla più di un ‘piccolo calo di produttività’ in qualche settore zootecnico dove si pratica l’allevamento intensivo.
La facilità con cui un’epidemia può diffondersi fra gli animali da allevamento è disarmante. Quella causata dal virus della peste suina africana (ASFV), patogeno in grado di causare una febbre emorragica la cui mortalità sfiora il 100%, ne è un esempio lampante. Il virus ha la capacità di sopravvivere anche nella carne processata ma, per fortuna, è innocuo per l’uomo. L’epidemia attualmente in corso è scoppiata nel 2007, in diversi Paesi dell’Europa dell’Est.
L’enorme massa di volatili allevati è soggetta a ripetute epidemie, causate da virus influenzali di tipo A, fra cui H5N1, H7N9 e H9N2, che sono in grado di mutare con gran facilità e combinarsi con altre varianti ospitate in maiali e cavalli.
Siamo di fronte a una fattoria in costante ampliamento. Il fattore del nostro esercizio di immaginazione è sempre al lavoro per allargare il recinto che ospita i suoi animali.

Il settore zootecnico è una bomba a orologeria, un sistema che dovrebbe essere ripensato, a cominciare dalle domande etiche che la filiera produttiva della carne e di tutti i prodotti di origine animale solleva.


https://www.iltascabile.com/scienze/allevamenti-intensivi-epidemie/